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Le donne lo sanno
Alla ricerca della credibilità e dell’autonomia con più consapevolezza. Ma la strada è ancora lunga, in un mondo disegnato dagli uomini.
Le donne nel post-pandemia,fotografate dal rapporto Coop (settembre 2021) hanno più consapevolezza del proprio valore e delle potenzialità che potrebbero mettere a servizio del rilancio del Paese, nonostante l’Italia sia tra gli ultimi paesi europei in quanto a parità di genere.
Sono più convinte delle proprie capacità, più istruite degli uomini e ritengono di essere la prima potenzialità inespressa dell’economia (lo sostiene il 42% del campione femminile coinvolto, contro il 18% degli uomini). Ma il loro ruolo nella società va ridefinito, ripensato attraverso un processo prima di tutto culturale.
Coop Alleanza 3.0 è impegnata sulla parità di genere, con iniziative di forte impatto, come la raccolta di firme “Close the gap” o “Noi ci spendiamo e tu?”, che ogni anno permette di devolvere fondi preziosi ad associazioni e istituzioni che lavorano per contrastare la violenza sulle donne. Ogni momento di sensibilizzazione e di informazione è importante per creare una cultura nuova, per dare spunti di riflessione a donne e uomini.
I contributi di donne... Ad alta voce
Il cambiamento necessario passa attraverso tutti. Abbiamo colto l’occasione di Ad alta voce, palinsesto culturale di Coop Alleanza 3.0, per catturare testimonianze preziose di chi gli stereotipi di genere li combatte ogni giorno.
Di questo abbiamo parlato, in occasione del Festivaletteratura di Mantova, con Barbara Mazzolai, biologa ed esperta di robotica, che ha coordinato la realizzazione del Plantoide, primo robot al mondo ispirato alle radici delle piante, e oggi coordina il progetto europeo GrowBot, per trasformare la natura delle piante rampicanti in tecnologie intelligenti e sostenibili. Ecco la sua risposta: «A mio avviso è un problema di educazione, di come viviamo determinati fenomeni a livello familiare e nella società», sostiene Barbara Mazzolai. «Deve cambiare radicalmente il rispetto, non solo del genere, ma in generale del diverso: c’è tanto da fare sia nella scuola sia nelle famiglie per arrivare a una società più comprensiva e integrata. Richiede un cambiamento culturale e forse in Italia dobbiamo lavorare ancora molto su questo».
Sono i condizionamenti culturali che determinano il successo di una donna. Ce lo spiega Roberta Villa, divulgatrice scientifica (intervistata a Cicap fest, festival della scienza e della curiosità di Padova), che ha risposto alla fatidica domanda sulla scelta personale tra lavoro, successo e famiglia: «Questa domanda è molto curiosa, perché non viene mai fatta agli uomini. Io penso che sia il momento in cui il problema della conciliazione fra lavoro e famiglia sia esattamente distribuito su entrambi i fronti, quindi alle ragazze dico: non preoccupatevi di conciliare lavoro e famiglia più di quanto se ne preoccupi il vostro partner; e ai partner dico: se volete, viceversa, dedicarvi alla casa e alla famiglia probabilmente potreste anche essere più felici».
Il divario infatti si gioca in primo luogo nelle case, conferma Chiara Saraceno, sociologa esperta di politiche della famiglia (intervenuta a Festival filosofia di Modena) nella lectio sostenuta da Coop Alleanza 3.0 dal titolo “Welfare e genere. Non solo una questione di donne”. La Saraceno ha spiegato che i servizi di welfare non sono neutri, vengono disegnati in base a un modello culturale del paese: in Italia questo modello presuppone la dipendenza economica delle donne e ne nasconde il lavoro familiare non retribuito. Solo se venisse defamiliarizzato il diritto/dovere di dedicarsi alla cura dei familiari, le donne potrebbero essere inserite a pieno nel campo del lavoro. «Riconoscere agli uomini responsabilità della cura sarebbe importante e molti paesi oggi spingono sui congedi di paternità per promuovere questa condivisione… bisogna superare il concetto del modello univoco, esteso alle donne, dell’adulto lavoratore senza altre responsabilità».
La differenza tra essere credibile e non esserlo
Qual è la differenza tra essere credibile e non esserlo, e quali sono le condizioni che rendono più o meno credibile una persona? Questi sono stati invece i temi dell’intervento di Rebecca Solnit, scrittrice e attivista statunitense, a Festivaletteratura 2021, nell’incontro sostenuto da Coop Alleanza 3.0.
Una riflessione ampia e appassionata sul concetto di credibilità nella società in cui viviamo, un tema attualissimo anche alla luce dei dibattiti sui social network e sulle testate giornalistiche, per valutare quali siano le storie da raccontare e quale sia la verità.
Solnit afferma che esiste un «filtro delle verità scomode» applicato a molti livelli – dalla polizia, nei tribunali, ma anche nei romanzi e nei film. «Le esperienze vissute da alcune di noi vengono ignorate dagli altri, può dipendere da una scelta personale, ma potrebbe anche dipendere dal fatto che viviamo in una società che sceglie di amplificare la visibilità di alcune storie, che vengono credute più di altre». Un meccanismo che penalizza chi ha subito violenza, ma anche gli immigrati, i non bianchi, i transgender, i disabili, i giovani e gli anziani.
Un esempio eclatante è stato il fenomeno “me too”, nel 2020, che ha permesso a tante donne di essere improvvisamente ascoltate nel raccontare storie che avevano già cercato di raccontare prima, ma senza essere credute. Il paradosso di chi subisce violenza, infatti, è quello di non essere ascoltato e ritrovarsi muto, per poi essere accusato di non aver parlato prima. «Le voci, i fatti, i dati sembrerebbero circolare liberamente – continua Solnit – e invece non è così: per chi subisce violenza, dalla vita personale a quella politica, c’è una gerarchia della possibilità e della credibilità, una gerarchia brutale, in cui chi ha in mano certi fatti non riesce a prevalere, perché chi è più potente di lei o di lui scaccia la sua verità e lo costringe al silenzio».
E continua: «La democrazia delle voci sarebbe il mio ideale, è di questo che si occupa buona parte di quello che ho scritto e che ho fatto non soltanto su questioni di genere». Conclude la scrittrice: «Da quella mattina del 2008 in cui ho scritto il testo intitolato “Gli uomini mi spiegano cose”, ci ho messo tanto tempo per rendermi conto che, in fin dei conti, io non parlavo, non scrivevo di violenza contro le donne, anche se ne leggevo continuamente… ma di una disuguaglianza di credibilità». La violenza di genere è resa possibile proprio da questa mancanza di ascolto, di credibilità e di importanza, e prospera in tutti i contesti in cui i fatti e le voci sono manipolate dal potere, condizione preliminare dell’epidemia di violenza di genere.
Sui generis. Competenze per la parità
Per colmare il gap delle differenze di genere nel nostro Paese è stato organizzato anche l’evento “Sui generis. Competenze per la parità”, tenutosi sulla piattaforma Academy ad aprile 2021.
Fra gli altri intervenuti Cecilia Robustelli, docente presso UniMore, ha fornito alcuni spunti concreti: «Il linguaggio che usiamo quotidianamente in tantissime situazioni ha una potenza straordinaria. Noi sappiamo che serve a comunicare idee, a una miriade di cose ed è anche uno strumento molto rivelatore di chi siamo, del nostro modo di pensare, dei condizionamenti che gravano su di noi (…). È opportuno che ci fermiamo a riflettere su quali modelli di genere trasmettiamo, ma anche su quelli che ci vengono proposti nella realtà in cui viviamo.
Oggi si parla di gender gap – continua – anche per quanto riguarda il gender confidence, cioè una differenza di genere relativa alla sicurezza personale, il modo di porsi, il modo di parlare, un tema già studiato negli anni ‘70 da una grande linguista americana, Robin Tolmach Lakoff».
Scarso potere e marginalità, è questo il modello linguistico che le donne hanno introiettato, e che richiede un linguaggio powerless, cioè privo di potere, e uno sguardo caratterizzato da incertezza, esitazioni, scuse, che rivela una scarsa considerazione di sé. «Quindi guardiamo al linguaggio con una maggiore consapevolezza del suo potere, per rimodellare i ruoli di genere – conclude la professoressa Robustelli – e pretendiamo che il ruolo delle donne sia riconosciuto, nei fatti sicuramente, ma anche con le parole».